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Editoriale
Miseria del welfare
di Carmine Valente

da Comunismo Libertario N.30 Novembre 1997

Una sconfitta storica

Sono anni che, in pressoché solitaria determinazione, sosteniamo la sconfitta del movimento dei lavoratori. Altri, da Rifondazione Comunista alla galassia, invero modesta, dei centri sociali o di organizzazioni minori della sinistra comunista o sindacale, hanno come noi sottolineato le tappe di arretramento del potere sociale, politico e contrattuale del mondo del lavoro, ma ciò, in particolare per quelle forze che hanno mantenuto un rapporto organico e fiducioso con le istituzioni, non si è mai tradotto nella piena consapevolezza della sconfitta.

Per costoro ogni piccolo sussulto sembrava dovesse riaprire i termini dello scontro di classe (qualcuno ancora ricorda la storia di Crotone); per costoro i nemici di ieri, nella confusione dei rivolgimenti politici diventano i paladini per contrastare l'iperliberismo berlusconiano e la destra populista - leghista e nazionalista - e tutti sono presi nella morsa del "meno peggio".

Amato, Ciampi, Dini e Prodi sempre meglio di Berlusconi o Fini, questo è il teorema. Ma perché i lavoratori dovrebbero scegliere tra uomini che pongono la stessa opzione liberale? Forse perché i primi sono più attenti alle condizioni di vita dei lavoratori ? La cronaca di questi anni ci consegna un'altra verità.

In queste poche righe non voglio ripercorrere la storia poco esaltante dello smantellamento delle capacità conflittuali della classe operaia e dei ceti subalterni avvenuta non solo per l'oggettività dei processi storici (una categoria di analisi, questa, che viene usata troppo spesso come il "cinico destino"), ma anche in larga misura ad opera delle forze egemone sul movimento dei lavoratori; storia ventennale sulla quale più volte abbiamo scritto su questa rivista e a questi scritti rimandiamo. Più semplicemente restringo il campo ad alcuni parametri che possono marcare questa lunga teoria di arretramenti; tra i più emblematici c'è il problema pensionistico.

Oggi, con l'accordo raggiunto sulle pensioni tra Governo e Sindacato con il ruolo determinante di Rifondazione Comunista, molti esprimono soddisfazione come se si fosse scongiurato un pericolo più grave, in realtà con questa ultima finanziaria non si è fatto altro che ratificare, accelerandone ulteriormente l'applicazione, la riforma Dini del 1995 che tra l'altro, già sanciva la fine delle pensioni di anzianità.

Sulle pensioni è però utile ricostruire, seppure in modo schematico, il percorso che dal 1969, cioè da quando fu introdotto il sistema retributivo, ci porta al 1997, quando cioè si creano i presupposti per la privatizzazione della previdenza.

Ridotto all'osso il sistema che si avvia nel 69 è un meccanismo che lega la pensione alla retribuzione e, dato importante, considerata la ritrovata capacità di difesa dei salari operai, la base di calcolo è circoscritta agli ultimi cinque anni di lavoro. Oggi gli attuali denigratori di questa riforma appartenenti alla sinistra di governo, per giustificare il loro ragionare ottusamente contabile che li ha portati ad essere i fautori più convinti della nuova manovra sulle pensioni, nel rileggere il passato ripropongono un approccio ragionieristico, sostenendo che quella riforma fu possibile perché eravamo in una fase di espansione dell'economia ed in presenza di una pressoché piena occupazione. In una fase che a loro dire lasciava aperta al capitale una ulteriore possibilità di sviluppo. Un ragionare che offende innanzitutto l'intelligenza perché nega tutta l'analisi sui cicli economici che anche il più disarmato dei compagni conosce e conosceva e soprattutto cancella d'un sol colpo il protagonismo che il movimento operaio seppe sviluppare in quegli anni, imponendo, spesso contro la stessa volontà dei gruppi dirigenti della CGIL e del Partito Comunista, condizioni di tutela del lavoro che nessun margine economico di per sé poteva ed aveva intenzione di garantire.

A cambiare il nuovo meccanismo delle pensioni si incominciò a pensare già nella seconda metà degli anni 70, quando superato il momento dello smarrimento si avviò quel processo prima di controllo e poi di smantellamento della conflittualità operaia, ma questo obiettivo fu momentaneamente abbandonato in quanto prevalse nelle nuove e vecchie cricche di potere l'infeudamento personale nei meandri dello stato. Seguirono anni che non videro nessun intervento sulla pensioni, ma nei quali si avvio quell'attacco ideologico al lavoro e alle sue tutele facendoli divenire i responsabili dei deficit di bilancio: i risultati di questa semina si iniziarono a raccogliere copiosamente nei primi anni 90. E' nel 92 che il meccanismo previdenziale disegnato nel 1969 subisce il primo colpo. Lo stesso anno in cui si chiude la storia della Scala Mobile. E' l'era dei governi tecnici che piacciono o non dispiacciono alla sinistra.

La manovra sulle pensioni che il Governo Amato effettua nell'autunno del 1992 "frutta" (rapina ai lavoratori) ben 14 mila miliardi. Non siamo ancora allo stravolgimento dell'impianto del 69, ma sicuramente è l'operazione più pesante in termini economici e che già ne cambia i connotati più importanti.

L'età per la pensione di vecchiaia passa (con un complesso meccanismo di gradualità) da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini.

La contribuzione minima per il diritto alla pensione passa da 15 a 20 anni.

La base di calcolo delle pensioni aumenta per arrivare nei neo assunti a tutta la vita lavorativa; le pensioni anticipate del pubblico impiego vengono frenate; si attua il primo blocco delle pensioni di anzianità.

L'anno successivo, il tecnico "amico" della sinistra Ciampi rapina sulle pensioni altri 5 mila miliardi, le pensioni di anzianità subiscono un altro blocco.

Nel 1994 i cuori si riscaldano, le piazze si riempiono, nuove illusioni contribuiscono a disarmare l'antagonismo di classe: è la grande opposizione alla manovra sulle pensioni che tenta il governo Berlusconi. Berlusconi con il suo governo cade, ma a chiudere il percorso di revisione della riforma delle pensioni ci pensa un altro governo tecnico amico dei "sinistri". E' la riforma Dini che a differenza delle misure pur durissime dei governi precedenti opera una vera e profonda riforma politica che cambia alle fondamenta i connotati delle pensioni pubbliche. E' con questa riforma che viene eliminata la pensione di anzianità, seppure con un percorso graduale che ci doveva portare al 2008, e soprattutto si avvia il meccanismo di calcolo contributivo tipico delle coperture assicurative private. In termini economici la rapina ammonta a circa 10 mila miliardi l'anno per i successivi dieci anni. La sconfitta vera, dunque, si perfeziona nel 1995 e appare incomprensibile se non disonesto chi vorrebbe barattare l'ulteriore peggioramento della tutela pensionistica come una quasi vittoria.

Epilogo

L'ultima manovra sulle pensioni, voluta da Prodi e dal PDS con il sostegno svergognato dei sindacati confederali e avallata al di la del massimalismo di facciata da Rifondazione Comunista, è stata preceduta da un dibattito che ha visto coinvolto il governo e le controparti sociali e attraverso il quale per mesi si è tentato di far credere che sul piatto della riforma del welfare non ci fosse solo il problema delle pensioni ma che più in generale si trattava di ridisegnare una nuova e più efficace struttura di tutela sociale capace di dare risposta alla nuova articolazione dei bisogni. Da parte sindacale durante questi mesi si è sostenuto, sapendo di mentire, che la riforma si doveva fare ad invarianze di quantità finanziarie, che se problema c'era, era quello di riequilibrare tra situazioni di privilegio e zone di sotto tutela.

Ci aspettavamo dunque un sostanzioso aumento delle pensioni minime, l'abolizione dei ticket perlomeno per tutti i pensionati, un piano di rilancio della sanità pubblica, una parola chiara sulla scuola privata che non può essere oggetto di finanziamento pubblico, l'avvio di progetti di recupero del patrimonio edilizio pubblico per la creazione di luoghi autogestisti dai giovani, un chiaro indirizzo di travaso di finanziamenti dal ministero della difesa a quello della protezione civile.

Arrivati al dunque, però, le cifre sono esplicite, 4.500 miliardi di risparmio nella finanziaria di cui ben 4.100 provenienti dal risparmio sulla previdenza ed in questo il contributo più significativo viene dalle pensioni di anzianità dei lavoratori dipendenti.

Rigettare l'accordo

Nel 1995 il 40% dei lavoratori coinvolti nella consultazione sulla riforma Dini si espressero negativamente, gli altri, quelli che votarono a favore lo fecero perché solerti funzionari sindacali si prodigarono a convincerli che le sorti dell'economia dipendevano dalla cupidigia dei lavoratori e che si trattava di investire in solidarietà nei confronti delle nuove generazioni che per l'egoismo dei padri non avrebbero potuto mai sperare in una pensione.

Un ritornello che sentiamo ripetere sinistramente anche per l'orario di lavoro e la flessibilità.

Ma soprattutto in quella consultazione si lasciò intendere ai lavoratori che quello sarebbe stato l'ultimo intervento strutturale sulle pensioni. In questo caso la menzogna era più esplicita perché la riforma già prevedeva la clausola di salvaguardia della verifica dei conti che ha portato a questa ultima rapina sulle pensioni.

Oggi il sindacato chiama ad una nuova consultazione, non sappiamo con quale faccia i quadri periferici avranno il coraggio di presentarsi nelle assemblee, quello che è certo che forte bisogna far sentire il nostro NO.

Al di la della consultazione, nella quale non abbiamo molta fiducia, si tratta di prendere atto che una stagione si è definitivamente chiusa: il movimento dei lavoratori è per il momento irrimediabilmente sconfitto, la sua rappresentanza sociale e politica ha nella grande maggioranza aderito ad un progetto liberal-democratico e gli altri come il partito della R.C., nonostante il bel nome che si è dato non riesce a liberarsi da una logica riformista fortemente statalista o da una neo subalternità alle istituzioni come emerge in parte del circuito dei centri sociali.

Da un lato si tratta di smascherare l'ennesima illusione che R.C. sta alimentando, ovvero la possibilità di un ruolo dirompente dell'azione parlamentare, che altro non è che la riproposizione di quella autonomia del politico che ha prodotto solo danni al movimento dei lavoratori; dall'altro il rifugiarsi in una prassi consolatoria che non riesce a guardare al di la del proprio specifico.

A questa consapevolezza corrisponde la necessità di una azione di costruzione di aggregazione sociale, privilegiando la nascita di forme di resistenza territoriali tese alla creazione di circuiti antagonisti che comprendano la necessità di declinare l'intervento nel proprio specifico con la formazione di un nuovo tessuto di militanti.